giovedì 19 marzo 2015

occhi indiscreti , un racconto in SPSP






Occhi indiscreti

1
Il mare ruggisce, tra scoppi improvvisi sugli scogli e schizzi di spumeggiante rabbia, mentre cammini curva con le mani sepolte nel cappotto troppo grande.
Ti fermi di scatto ed alzi il mento. Chiudi gli occhi, prendendoti gli spruzzi gelati in viso. Te ne stai lì a fissare il mare a lungo, troppo per le mie ossa infreddolite. Mi passo più volte le mani sulle braccia, cercando di scaldarmi, soffio sui palmi osservando la nuvola di vapore volare davanti al mio naso ghiacciato. Tu invece stai lì immobile, senza un tremito, senza cambiar posizione, naso all’aria e capelli al vento.
La lunga chioma, ormai scurita dall’umidità, non svolazza più, ondeggia piano sulle tue spalle gocciolando chiazze scure sul vecchio paltò.
Ti volti. Abbasso il viso e accendo una sigaretta, con noncuranza, mentre aspetto che mi passi accanto sorpassandomi.
T’incammini verso casa, come da copione: lavoro notturno alla caffetteria, poi stacchi e vieni qui aspettando che il giorno nasca. Che arrossi o meno il cielo, che il mare rifletta o no i suoi colori, tu sei sempre qui, con la stessa espressione dolente sul volto.
Ti seguo a debita distanza. La sigaretta si spegne alla pioggia che inizia a cadere copiosa, la getto via ed apro l’ombrello, ringraziando la mia previdenza: sono solo un passante anonimo, con il bavero alzato e l’ombrello calato sul volto.
Aspetto che la luce si accenda nel tuo appartamento al sesto piano.
Sospiro e apro il portone della palazzina di fronte, salgo al sottotetto e infilo la chiave nel 10b, il mio monolocale.
Apprezzo il tepore della casa, seppur vuota e silenziosa è pur sempre un gradito riparo dalle intemperie. Mi apposto alla finestra, metto l’occhio sul binocolo e la tua esile figura appare nel mio campo visivo.
Le finestre senza tende mostrano il tuo appartamento scarno, ma lindo. Il cappotto ben appeso sull’attaccapanni da muro. Le scarpe le hai lasciate fuori, sul pianerottolo.
Torni dal bagno con un asciugamano per tamponare i capelli fradici, poi entri piano nella stanza buia. Lui dorme, come ogni mattina, e come ogni mattina piangi uscendo dalla sua stanza, poche lacrime veloci, subito scacciate da una mano rabbiosa. Poggi la schiena sulla porta appena chiusa, espiri e drizzi le spalle.
Cinque minuti dopo il vapore appanna i vetri e intravedo due sagome che fanno colazione, due ombre scure, con i capi che si sfiorano.
2
La pioggia ha lavato la città, tutto riluce. Cammino a passo spedito, fischiettando. Oggi è un giorno speciale, l’unico giorno in cui ti vedo spensierata. Non so come né quando, ma mi sono affezionato al tuo sorriso, dolce, pieno di vita.
 Oggi è il giorno del ‘Niña loca’.
Immerso nei miei pensieri commetto un errore imperdonabile: Apro la porta, facendo tintinnare il campanello. Cosa mi è preso dannazione? Mi sono distratto, come un novellino. I miei occhi incontrano i tuoi, gelo e calore insieme.
“Buongiorno!” la tua voce non è distorta da interferenze o disturbata dai fruscii delle apparecchiature, ma limpida e dannatamente reale.
“Buongiorno” Sostengo lo sguardo, ma dentro tremo. Potresti riconoscermi ora, potresti ricordati di me, rovinando tutto.
“Deve ritirare?” Chiedi fissando le mie mani vuote. Di colpo ricordo dove sono:
“No, vorrei che desse una rinfrescata al mio paltò” mento sfilandolo.
“Ah, e uscirà senza, con questo freddo?” chiedi visibilmente sorpresa. Devi pensare che io sia davvero strano, ora le possibilità che ti ricordi di me aumentano, devo uscire subito di qui.
Qualcosa però mi trattiene, un’assurda curiosità che incolla le mie suole al pavimento della lavanderia.
“No, aspetterò qui se non le dispiace” subito lo stomaco si contrae per quest’idiozia farneticante, ma comunque mi siedo.
“Oh, non c’è problema, ci vorrà un po’” dici, ora sei imbarazzata e forse impaurita. Vedo lo sguardo volare da me al telefono, come a misurare lo spazio per fiondarti a chiamare soccorsi.
Me ne sto in silenzio, un sorriso docile stampato sul volto, sperando di metterti a tuo agio.
Il ragazzino disegna.
“Non sei andato a scuola?” chiedo distrattamente, ma una parte di me sa che è anche per sfidarti, per mandarti un segnale. Infatti reagisci all’istante: gli occhi scuri divengono pozzi profondi, le sopracciglia corrugate e i pugni stretti. Solo per un istante, poi sorridi, un sorriso costruito, duro come cemento:
“Non stava bene oggi” rispondi, mentre lui mi guarda con aria ottusa. Non capisce nulla della mia lingua, lo tieni segregato in una cupola di cristallo destinata ad infrangersi in mille pezzi. Presto, molto presto.
Ora sembri nervosa, e anch’io lo sono, entrambi non vediamo l’ora che io esca da quella porta. Mi alzo dalla sedia, gettandoti un’ultima fugace occhiata.
“Ci ho ripensato, passerò più tardi, arrivederci”
Esco rabbrividendo, ma il mio petto ribolle di rabbia: ore ed ore di appostamenti, che rischiano di andare in frantumi. Ed ora mi beccherò anche un raffreddore.

3
Torno a casa reprimendo pensieri dementi sul fatto che tu possa essere arrabbiata. Eppure ero preparato: freddezza, distacco, niente empatia. Ma nonostante tutte le mie precauzioni è successo lo stesso.
Eccoci al ristorante. La tua amica, abito succinto, ricoperta di bigiotteria, ha già le guance rosse per la troppa sangria. Il tuo moccioso ruba i polpi dalla paella sogghignando e tu parli e parli nella tua lingua, sfogandoti del silenzio lungo un mese.
La donna t’interrompe spesso, parla con la bocca piena e rutta. Nonostante l’abito, non ha l’eleganza di una signora, ma la rudezza della gente di strada. Tu invece, con la semplice camicia bianca, i capelli raccolti sulla nuca e nessun gioiello, hai un’eleganza naturale, che mi ha attratto fin dal primo attimo in cui ho visto il tuo volto in quella foto.
Non ho osato prendere un tavolo, ho già rischiato troppo alla lavanderia. Per questo mi devo accontentare di vederti da lontano, senza poter udire il suono delle tue risa.
Fumo due, tre, sigarette, le spengo e le intasco.
 Finalmente uscite, ridi ancora, un po’ troppo forte, sarà colpa della sangria. Il bambino è assonnato e ciondola la testa poggiandosi a te.
  “Notizie di Jacob?”
Scuoti la testa mestamente.
“Non so nemmeno più se desidero che torni o che sparisca, non ne posso più di questo limbo, vorrei iniziare a vivere” Poi guardi il bambino, improvvisamente attento, col naso alzato su di te. Sorridi:
“Saluta la zia Randy, Radu”
“Ciao” sussurra con la falsa timidezza dei bambini.
 “Sta’ attenta”
Annuisci incamminandoti verso casa.
Vi seguo piano perché i miei passi non risuonino sull’asfalto.
4
 Ti stendi sul divano, ancora sorridendo. Io ti contemplo sorseggiando caffè. Tu, il mio spettacolo del sabato sera, tu, unica mia compagnia, divenuta ossessione della mia vita solitaria.
D’improvviso il suono del cellulare ci fa sobbalzare. Da quando vivo la tua vita, l’ho sentito suonare un paio di volte, mai di notte. Sono eccitato e deluso al contempo: forse il giorno che ho atteso così tanto a lungo da perdere di vista la meta, è finalmente arrivato e sento amara la perdita che inevitabilmente ne consegue.
Inciampi sbattendo un piede, saltelli imprecando e raggiungi l’apparecchio.
“Randy?”
‘Come Randy’ penso disorientato.
Sbarri gli occhi. Parli troppo veloce, riesco a decifrare poco, ma sento la tua angoscia. Afferro la pistola. Tutto succede di colpo. La tua porta si spalanca con uno schianto, entra un uomo corpulento, calvo, dal ghigno animalesco, non è lui.
“Tu, puttana!” urla spaccando il tavolino all’ingresso con una grossa mazza. Ti butta in terra, mentre gridi alla voce che ti chiama singhiozzando dalla camera accanto:
“Resta lì Radu, non uscire per nessun motivo!”.
“Credevi che non ti avrei riacciuffata?” È sopra di te e dalla tua faccia disgustata riesco quasi a percepire il suo fetido alito. “Voglio i miei cazzo di soldi!” Ti colpisce al ventre e il tuo gemito strozzato rompe le mie indecisioni. Dovrei rimanere lì a guardare, impassibile, ma corro da te giustificandomi che se muori tutto va a puttane.
Salgo le scale a due a due, mentre i colpi sordi dal tuo salotto hanno svegliato i vicini. Si affacciano insaziabili di tragedie da raccontare, ma rimanendo al sicuro delle quattro mura.
Arrivo all’ingresso, tu sei distesa, sangue sulla mazza e sul pavimento, ma non urli, mentre l’energumeno ti ha bloccato le mani sul freddo pavimento.
Metto mano alla pistola, poi cambio idea e prendo la mazza e colpisco con tutta la rabbia che non riesco a reprimere. Mi fermo solo quando tu mi implori di farla finita, che è morto.
Mi blocco, ti guardo, capisco che mi hai riconosciuto. È andato tutto in malora, pazienza.
“Chi cazzo sei tu!” gridi e vedo più terrore per me che per l’uomo che stava per violentarti e che ha reso il tuo volto una maschera sanguinolenta.
“Io…” inizio a dire cercando le parole giuste. Mi interrompi spingendomi via con entrambe le mani:
“Vattene!”
Indietreggio fissandoti, inebetito.
Poi ci ripensi: “Portati via questo escremento!” Alzi le mani alla bocca, disgustata. “Mio dio lo hai ucciso, cazzo sei matto?”
“Io…” Le parole non vogliono uscire, le reazioni non sono immediate, la mia faccia di bronzo non viene a salvarmi, tentenno impacciato, quasi impaurito.
“Cosa sei un maniaco? Vattene subito e lasciami stare, capito? Non mi fai paura!”
Sembri isterica, afferri la mazza. Hai paura, sì, ne hai davvero molta, ma sei una leonessa che difende se stessa e il suo cucciolo, non esiterai ad avventarti contro di me, pur sapendo di non avere scampo.
Afferro l’uomo dal cranio fracassato, lunghe scie di sangue si formano sul pavimento prima che riesca a issarmelo in spalla.
Salgo le scale e arrivo sul tetto, entro nello sgabuzzino condominiale e lo ficco lì. Domani sistemerò la faccenda. Per oggi mi limito a scendere le scale con noncuranza, tornando nel mio appartamento, per un’ultima notte. Domani dovrò sparire.
5
Il bilocale è migliore del primo, ma mi è estraneo. Mi affaccio alla finestra, la visuale sul tuo appartamento è obliqua, poco soddisfacente. Sbuffo, seccato e nervoso. Vado in bagno e apro il sacchetto, mi accingo a usare la tintura scura, come le lenti, e tagliar corti i capelli mossi.
Ti vedo uscire zoppicando un po’.
Esco calcando il berretto in testa, giacca sportiva e jeans attillati.
Ti fermi davanti ad una villetta, nel quartiere bene. Ne esci, come previsto, con un paio di dalmata e un cocker al guinzaglio, per il tuo strampalato lavoro domenicale. Un sorriso di plastica costruito per l’occorrenza, che muore appena ti volti.
Anche tuo figlio sorride, accarezzando i cani latranti che gli zampettano addosso.
Destinazione parco. Mi avvio prima di voi, posizionandomi dove so che andrete. Voglio rischiare il tutto e per tutto mettendomi dove mi vedrai, provando la solidità del mio camuffamento.
Mi raggiungi, getti un’occhiata distratta verso di me e passi oltre. Istintivamente copri con la mano l’occhio pesto, pudore e timore di poter attirare l’attenzione. Ti siedi di fronte a me, lo sguardo perso nel vuoto, cupo e impenetrabile.
Tiro fuori un blocco da disegno e mi metto a scarabocchiare, prima che possa rendermene conto i tuoi tratti compaiono sul volto della donna che prende vita sul mio foglio.
La palla finisce sotto la mia panchina, tuo figlio si fionda a prenderla, si accuccia e allunga la mano, non ce la fa, mi inginocchio e afferro la sfera appiccicosa, reprimendo il disgusto.
Sento la tua voce alle mie spalle, devo rimanere calmo.
“Radu vieni via, disturbi il signore”
Mi alzo, sorridi, poi il sorriso si blocca. ‘cazzo mi ha riconosciuto’ penso. Istintivamente la mano va alla pistola, poi seguo il tuo sguardo, non guardi me, ma il foglio.
“Non volevo invadere la sua privacy, vuole che lo strappi?” chiedo con voce cantilenante dall’ accento ispanico.
Vedo il tuo volto combattere ed infine rilassarsi:
“È bellissimo” dici, e vedo un sorriso vero spuntare sulle labbra spaccate.
Rimango spiazzato quando ti siedi sulla panchina:
“Posso?” chiedi sfogliando il blocco.
“È bravo, davvero bravo” Il tuo sorriso mi paralizza. Mi siedo, il mio corpo, abituato a fingere, recita la sua parte: la gamba piegata con noncuranza sulla panchina, le mani, con i guanti dalle dita mozze, indicano un’immagine, senza alcun tremore:
“Questo passero stava lì fermo, voleva un ritratto” scherzo, mentre sento rombare il cuore nelle orecchie.
“A me piace questo” indichi il mare tempestoso.
“È suo” stacco il foglio dal blocco e te lo porgo.
“Mio? No, no, io non posso…”
“Lo prenda” insisto.
Sorridi ancora, scosti una ciocca di capelli dal volto, sistemandola dietro l’orecchio.
Dio come sei bella da vicino, mi sale un moto di rabbia per quel maiale che ti ha ridotto in questo stato. M’irrigidisco pensando che devo ancora sistemare quella questione. Ricordando d’un tratto chi sono e chi sei tu.
Devi percepire qualcosa perché non sorridi più:
“Mi scusi, l’ho importunata” ti alzi. “Ora devo andare” allunghi una mano verso di me. “Mi chiamo Sonia”
“Francisco” rispondo accarezzandoti la mano. Sento la mia voce dire:
“Resta ancora un po’ ti prego” mentre l’altra voce nella mia mente impreca: ‘imbecille’
Abbassi lo sguardo arrossendo, torni a sederti e sono sicuro che stai pensando anche tu di esser diventata matta.
“Da dove vieni?” chiedi.
“Toledo, son qui per disegnare un po’ di bellezze locali e cercare fortuna”
Ammicco. Tu rispondi a tono, civettando un po’:
“Non sono del luogo e di certo non sono una bellezza, non ora”
La butto sullo scherzo:
“Dovresti far attenzione per le strade ghiacciate con quella muta di cani che ti tira il guinzaglio, oltre a ridurti così potresti travolgere qualcuno”
Ridi, una risata cristallina, poggi con noncuranza una mano sul mio ginocchio e devo trattenermi da non coprirla con la mia.
Rimaniamo lì a lungo, il mio cervello sembra in panne, non memorizza ogni cosa succeda intorno, non registra i secondi passati né chi transita intorno a noi.
Non mi rendo conto che il tempo è volato finché tu non ti alzi di scatto:
“Oh mio Dio è tardissimo, è stato un piacere Francisco” ti chini sul blocco afferrando la matita a carboncino, scrivi dei numeri, poi alzi il capo sorridendo un po’ timida:
“Mi piacerebbe rivederti” ti giustifichi e scappi via lasciandomi lì con le narici ancora piene del tuo odore.
6
Me ne sto al freddo sull’uscio, indeciso se entrare o scappare, pochi clienti nottambuli si contano sulle dita nel locale. Sbircio dentro ancora una volta e vedo il tuo volto tirato dalla stanchezza sorridere gentile ad un acquirente. Ancora una decisione impulsiva, entro imprecando contro la mia stupidità, mentre la parte idiota che è spuntata in me mi zittisce:
“Ciao” esordisco. Spalanchi gli occhi, vi leggo un guizzo di gioia.
“Ehi, che ci fai qui?”
“Soffro d’insonnia”
“Allora decaffeinato”
“Si chiude, non avete sonno?”
La voce ci fa sobbalzare. La notte è trascorsa parlando, sei divertente ed intelligente, oltre che bellissima. La voce che gridava ‘non puoi! ’ è ormai messa a tacere.
“Posso accompagnarti a casa?” ti chiedo preparandomi al no: so dove vai ogni mattina.
“Sì, certo” mi sorprendi e a stento trattengo un sorriso.
“Allora…chiamami” sussurri sul portone. Rimango lì imbambolato mentre mi stampi un leggero bacio sulle labbra. Sto lì fino a che il sole salendo non riscalda la mia nuca, riscuotendomi.
7
Giro e rigiro il pezzo di carta strappato dal blocco nelle mani sudate. Non posso chiamare, non posso gettare tutto alle ortiche per un capriccio senza senso.
Vado alla finestra e ti vedo rilassata sul divano, una settimana è passata e domani è di nuovo riposo, andrai al parco ed io potrei incontrarti lì ‘per caso’, ma ho voglia di sentire la tua voce ora, un impulso che attanaglia le mie viscere e caccia via la consapevolezza che non devo farlo. Le mie dita digitano quei numeri e sento squillare libera la linea, mentre ti alzi sorpresa e timorosa allo squillo inatteso.
“Pronto” sussurri.
Devo riagganciare.
“Ciao, sono Francisco”
Il sorriso che compare sulle tue labbra mi rende completamente ebbro, dimentico il discorso che mi ero preparato.
“Vuoi uscire?” chiedo in modo infantile.
“Si” rispondi tu, in un soffio.
Sono al settimo cielo, me ne frego delle innumerevoli conseguenze, mentre mi preparo a portarti fuori, pregustando il fatto che ti starò vicino.
Un telefono suona, il tuo, lo sento gracchiare dal microfono e prima ancora di sentire chi è, il mio istinto mi dice che tutto è finito, senza che sia iniziato.
“Jacob” dice la tua voce strozzata.
8
La testa mi esplode, il cuore martella, devo essere cauto. La tua figura immobile sul molo scruta l’orizzonte, le mani artigliano la stoffa del vestito.
Alzo lo sguardo alla ricerca degli altri, non posso rischiare di fallire, non stanotte, ma non ho la calma necessaria, il mio piano ha una falla, insignificante quando è stato pianificato, ma da cui ora sta defluendo tutta l’acqua in cui annegherà la mia coscienza.
Senza controllo cerco un’alternativa. Ancora una volta metto a rischio tutto per te, una sconosciuta. Eppure tengo a te, in un modo strano e malato, che mi costringe a riflettere su cosa sarà dopo stanotte.
La luce di un’imbarcazione mi riporta alla realtà. L’addestramento ricevuto prende il sopravvento. Lo sguardo scandaglia ogni angolo del porticciolo, valutando ogni pericolo, la mano all’arma, le gambe pronte a scattare.
Interminabili momenti in cui tu ti torci le mani. Forse pensi a me? Inizi a camminare avanti e indietro, il volto corrucciato. Ti mordi il labbro inferiore. D’un tratto ti allontani tirando per un braccio il bambino. Il cuore si ferma un istante nel mio petto e freno un sorriso neonato. Ma muore all’istante, perché tu torni indietro, ti siedi su una panchina, prendi il volto tra le mani e vedo le spalle alzarsi ed abbassarsi ritmicamente. Radu si avvicina abbracciandoti alle spalle:
“Mammina, non piangere” ti sussurra piangendo lui stesso, scostandoti i capelli dal viso, cercando di aprire uno spiraglio per vedere i tuoi occhi e cancellare la sofferenza dal volto che ama.
Vorrei venire io lì, poggiare le mie mani su quelle spallucce fragili, consolarti. Ma serro la pistola con ambedue le mani, le nocche bianche, i denti che scricchiolano per la tensione.
“Tenetevi pronti” Parlo alla trasmittente. Un attimo ancora ed esplode il caos. Dovevo prendere solo lui, bloccarlo, lasciando te al tuo destino. Invece corro, ti sollevo alla vita con un braccio, nell’altro prendo Radu e corro lontano dal fuoco incrociato.
Urli, scalci, poi mi riconosci e ti blocchi spaventata e delusa.
Nell’auto schiaccio l’acceleratore, tu taci sbirciando dal finestrino la squadra che cattura il tuo uomo.
“Chi diavolo sei?” mi dici fissando il mio profilo. “Mi hai sentito? Chi sei!” urli furiosa. Appena sono certo che sei al sicuro inchiodo e mi volto. Mi fissi e vedi i miei occhi chiari, non quelli scuri che hai visto al parco.
“Francisco… sei l’uomo che mi seguiva!” provi ad aprire la portiera bloccata.
“Aspetta” ti supplico. T’abbraccio da dietro bloccandoti, stranamente non fai resistenza.
Ti poso un bacio sulla tempia, ma ti sento rigida:
“Sono un agente” ammetto.
“Mi hai seguito per arrivare a lui” comprendi. La tua voce taglia come lama e so che non c’è nulla che posso dire per farti capire come mi sento.
“Sì” dico, senza tentare di spiegare nulla.
Prendo la radio: “Ho inseguito il soggetto alfa, mi è sfuggita, la cercherò nei luoghi a lei familiari, gli altri sono al sicuro?”
“Eccoti! Ti sei perso il più bello amico: arrestati con un carico enorme di coca e dieci prostitute a bordo, non avrai tutto il merito caro mio, mi spiace, il lupo solitario dividerà gli onori!”
Scuoto la testa, quell’imbecille di Calton avrà una grossa gratifica senza aver fatto un cazzo.
Siamo sotto casa tua. “Prendi un po’ di roba al volo, starai nascosta per un po’, fintanto che non troverò documenti per voi. È tutto finito Sonia” ti dico.
Mi fissi senza accennare a muoverti, poi i tuoi occhi brillano, di slancio mi baci lasciandomi senza fiato.
Sorrido guardandoti allontanare.
“Io va a szkoła?” chiede Radu rompendo il silenzio.
Il mio sorriso si allarga, tiro fuori una sigaretta per frenare le emozioni.

“Si, ragazzo, ci andrai di sicuro”.

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